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Cenni autobiografici


Sono nato a Maniago il 7 ottobre 1910.

Dagli inizi della mia attività, dai venti ai trent’anni, cioè nel periodo formativo, frequentai l’Accademia di Venezia fino al ’34.

Nel 1936 vinsi la borsa Marangoni a Udine e fui a Roma fino al ’39.

Di quegli anni l’episodio più significativo è stata l’esposizione alla galleria del Milione nel ’33 a Milano.

La galleria del Milione si distinse in quegli anni per il contributo dato nell’appoggiare e far conoscere l’arte d’avanguardia nel nostro paese e, oltre a questo, nello stesso tempo presentò, attraverso alcune mostre, gruppi di giovani artisti di varie regioni e fra i nomi proposti figurarono quelli di Cagli, Guttuso, Afro, De Luigi, il mio e di qualche altro; più avanti iniziò l’attività il gruppo di "Corrente" e, sempre in quel tempo, cioè dal ’39 al ’42, si bandirono i premi Bergamo patrocinati da Bottai. Nel ’40 Argan fu presidente della giuria e vennero premiati Mafai, Guttuso, segnalati Galvano, Pizzinato. Nelle edizioni successive ottennero riconoscimenti: Menzio, ancora Guttuso, Birolli, e premi minori Morlotti, Cassinari, Capogrossi. Come si vede, molti sono i nomi di artisti che si opponevano ai celebrati maestri del ‘900.

Il fascismo bloccò l’attività di «Corrente», la guerra quella dei premi Bergamo.

Sempre a causa della guerra, nel ’39, da Roma tornai a Venezia.

Contatti con l’ambiente del Cavallino: Arturo Martini, Carlo Scarpa, Cesetti, Viani, Santomaso, poi Afro e Dino Basaldella e Turcato e Vedova.

Nel 1943 mostre personali alla galleria del Milione a Milano e a quella del Cavallino a Venezia.

Dal settembre 1943 interrompo l’attività di pittore fino alla liberazione dell’aprile ’45.

Nel ’45 riprendo a dipingere con molto entusiasmo, con tutta la volontà tesa alla conquista di un linguaggio nuovo.

Il 1946 a Venezia, alla galleria de L’Arco mostra di grandi "tempere partigiane" di Vedova e mie. Successo clamoroso: la folla ha dovuto essere ordinata dai vigili urbani.

L’Arco, nata in quell’anno, è stata un’associazione culturale di giovani di sinistra che si interessava di teatro, poesia, musica, arti figurative.

È in questo momento che Birolli arriva a Venezia ed è colpito dal clima movimentato, ricco di iniziative, di scontri e di polemiche, di dibattiti ed è da questo clima che nascerà l’idea di creare il gruppo che sarà il "Fronte Nuovo".

All’inizio del ’47, nel febbraio alla Mostra d’arte italiana d’oggi a Torino (concorrevano quasi tutti gli artisti del gruppo di "Corrente": Guttuso, Afro, Santomaso, Morlotti, Cassinari) ottengono il primo e secondo premio per la pittura rispettivamente Pizzinato e Vedova, per la scultura Fazzini (il premio Torino, l’unico che si apriva con fiducia a speranze o certezze di rinnovamento, per quel che riguarda i premi ai due veneziani Pizzinato e Vedova fu completamente boicottato dalla stampa).

La prima mostra dei veneziani del Fronte: Santomaso, Pizzinato, Vedova e Viani, si terrà ancora alla galleria de L’Arco prima della partecipazione, con gli altri del gruppo, alla mostra di Milano alla galleria della Spiga nel giugno-luglio del ’47.

Delle vicende del "Fronte Nuovo" si è parlato abbastanza perché occorra aggiungere ancora qualcosa. I fatti salienti sono la presenza con due grandi sale alla Biennale di Venezia del ’48 e il successo dell’anno dopo alla Mostra d’arte italiana del XX secolo al Museo d’Arte Moderna di New York.

Alle cause arcinote cui si attribuisce la scissione del «Fronte» si aggiungerà solo che, oltre a quelle, ci furono altre ragioni provocate queste da azioni e manovre di disturbo, quelle cui allude Marchiori nella lettera del gennaio del ’49, diretta a me, e pubblicata fra i documenti nel volume Il Fronte Nuovo delle Arti ad opera dello stesso Marchiori che, appunto, allude ad operazioni di disturbo tendenti a disgregare il gruppo e che erano: la nascita a Milano della Galleria di Pittura, la pubblicazione di Pittura Italiana Contemporanea, libro uscito a Torino e di pubblicazioni edite dal Milione e da Einaudi.

Fu l’inizio di una lotta provocata da parte di alcuni per l’ambizione di prevalere che offendevano i colleghi esclusi, lotta che non ha mancato i suoi effetti.

Se la Biennale del ’48, la prima del dopoguerra, fu la Biennale del Fronte Nuovo, quella del ’50 è stata la Biennale del Realismo.

Capisco come ora, per chi non ha vissuto quegli anni, vissuto il clima di quel periodo, sia difficile comprendere perfettamente il senso del contrasto e del conflitto che vennero a crearsi fra le posizioni di aggiornamento dell’avanguardia e i propositi dei realisti. Tutto fu appesantito dal clima politico del momento; occorre ricordare che erano i tempi della guerra fredda fuori e dentro casa. Il realismo intendeva portare avanti e dar forma e senso "figurativamente concreto" alla realtà nuova, dar volto alle aspirazioni di mutamento che animavano allora tutti coloro che credevano nella possibilità di un autentico rinnovamento del nostro paese, per arrivare a costruire un’Italia libera, civile, giusta e aperta a tutti, dove anche l’arte e la cultura fossero beni e patrimonio di tutto il popolo. Il movimento fu subito ampio, ma non ebbe lunga durata (poco più di un lustro). Nell’asprezza della polemica commettemmo anche gravi errori di linguaggio ma non ci lasciarono il tempo per superarli.

Ad affossare il movimento, cambiato il clima politico, furono le stesse forze che l’avevano promosso. Nel 1956, per esempio, fu liquidata la rivista "Realismo" che lo sosteneva. Fu una mossa politica pesante e brutale. Io che ero stato il solo, partendo da posizioni non figurative, a scegliere la strada opposta, persi l’appoggio e la considerazione di quella parte; poi all’affossamento del realismo anche quello, d’altronde solo morale, da parte dei compagni e, in una definitiva commemorazione alle Botteghe oscure, con un’orazione di Trombadori, fui, assieme ad altri, onorato quale "caduto sul campo" nella gloriosa, perduta battaglia per un’arte nazional-popolare.

Da quel momento per loro non esistei più. Rimasi solo. Vennero per me anni molto duri e fu assai difficile continuare da solo la strada che avevamo intrapreso, con grande slancio, in molti.

Andai avanti fino al 1962, e alla fine alla solitudine mi ero persino affezionato.

Poi, dipingendo gli alberi del mio giardino nel ’63 riuscii a venirne fuori.

Questa fase ebbe il riconoscimento nel 1966 con l’assegnazione di una sala alla XXXIII Biennale di Venezia.

Ci furono poi le grandi antologiche a Mosca e al museo Ermitage di Leningrado nel 1967 e quelle di Berlino e Dresda nel 1968.

Riassumendo, se si confronta onestamente il mio lavoro con quello dei miei coetanei, nei vari momenti della comune vicenda, risulterà che qualche quadro buono sono riuscito a farlo fin dagli inizi; che alcuni quadri buoni li ho dipinti nel ‘42-’43 iniziando, in anticipo su altri, l’opera di aggiornamento; che un discreto numero di opere impegnative le ho realizzate dal ’46 al ’49 nel Fronte Nuovo, periodo questo che molti considerano il mio migliore.

Per quel che riguarda la fase successiva, quella del "realismo", ci tengo a dichiarare che ritengo positiva questa mia esperienza, anche se si volesse di questo periodo salvare solo un lavoro, il trittico Un fantasma percorre l’Europa, che fu esposto alla Biennale del 1950.

Del dopo, del lavoro di questi ultimi dieci anni di attività, col ritorno all’individuale, al privato, si dice e si è scritto che questo sia il periodo mio più felice. In effetti non sono mai stato tanto sereno come ora, e poiché posso oramai riposare sul fatto di essere pittore (grande o piccolo non ha importanza), e poiché con questo solo fatto di esserlo sono riuscito a realizzare la mia più profonda aspirazione, quella appunto di essere un pittore.

Il periodo mio più fortunato, dopo quello tremendo e più emozionante della guerra e del ricominciamento, ha inizio nel ’66 con una sala alla XXXIII Biennale di Venezia, l’invito per l’antologica nell’URSS e in Germania, l’incontro con Clari con la quale ho seguito le mostre nell’Unione Sovietica e in Germania.

Assieme a lei, in mare verso Odessa, ho scoperto i gabbiani e in Russia le betulle che, per qualche tempo, oltre alle figure e i ritratti di Clari, con le Venezie sono diventati per alcuni anni motivi fortunati di una serie di quadri fino al ’72.

In seguito, e anche ora, mi sono lasciato andare sulla scia della memoria, abbandonandomi senza complessi alla spontaneità, quasi all’automatismo, e dipingendo quel che mi veniva spontaneo di fare, libero da qualsiasi preoccupazione di coerenza et similia, perché questo da sempre ho cercato di raggiungere e realizzare: la conquista di una piena, interiore libertà.

Armando Pizzinato


in Pizzinato. L’arte come bisogno di libertà, catalogo della mostra, Venezia, Marsilio Editore, 1981, pp. 17-18.

(Testo tratto da un'intervista a Televenezia, filmato di A. Favarato, 1979)



 

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