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Nota


Ho voluto che in questa mostra apparissero quadri del ’48, del ’49, del ’50, del ’51. Non conosco lo scopo usuale della retrospettiva (un bel pezzo del ’48, un bel pezzo del ’49, un bel pezzo del ’50), e neppure lo scopo più storicistico (quando il pittore era astratto, quando era mezzo figurativo, quando più realista), ma come testimonianza dei miei tentativi di girare intorno allo stesso problema cercandone la soluzione.

Il quale problema era ed è: «Data come premessa la necessità di una partecipazione alla vita, ad una determinata vita la vita sociale con le lotte sociali, come riproporre in termini figurativi questa partecipazione alla vita?».

Ho creduto di fare del realismo nel ’48 accettando i contenuti precisi della vita sociale («Primo Maggio», «I Difensori della Fabbriche») e pensando che la formulazione perentoria del titolo e le linee, i piani e i colori impegnati in un senso di movimento vitale, sia nello spazio dinamico che nel timbro del colore, fossero sufficienti a comunicare quella che io dicevo «la mia emozione viva». Credevo che partendo da una fonte di emozione nuova e vera e riproponendo quello che avevo provato in una figuratività accuratamente scelta, avrei fatto partecipi altri della mia emozione.

Poi non ho fatto più coincidere il problema del realismo con quello della mia emozione. Ho pensato che la partenza era buona, ma che non mi dovevo accontentare di riproporre agli altri la mia situazione personale per una loro identificazione, tanto più che la mia riproposta, fatta per allusioni e suggerimenti, si prestava a una varietà di interpretazioni, mancando al suo scopo che avrebbe dovuto essere immediatezza di intuizione.

Nel ’49 ho creduto di fare del realismo dicendo: macchina, uomo. La macchina ha una sua precisazione. L’uomo ha una sua precisazione. Mi sono mosso come ho potuto, disegnando una macchina, disegnando un uomo, tenendo stretto, per non perderlo, tutto il bagaglio della figuratività europea.

Nel ’50 ho creduto di fare del realismo accentuando il contenuto sociale con una certa aggressività e un senso epico di grande azione. Mi sono impegnato di più sull’uomo sottraendolo, nel piano figurativo, sempre più alle occasioni, intendendo come occasioni quanto c’era in me di futurismo, cubismo, espressionismo. Come aspirazione avevo quella di liberarmi dalle formulazioni storicamente superate: impressionismo, cubismo, futurismo, espressionismo, astrattismo, cioè dal mito della cultura europea, che non sentivo più necessario. Come coscienza, sapevo che avrei dovuto impiegare molto tempo e accontentarmi di lenti risultati.

Nel ’51 e siamo ora, avendo precisato con durezza tutto quello che dovevo ancora perdere, io e il realismo siamo di fronte. So che esiste la casa, l’uomo, la mucca, l’albero. So che l’uomo, la casa, la mucca e l’albero hanno fermezza senza avere fissità e fra loro creano dei rapporti che sono di giusta misura. Non c’è addizione, né sottrazione di misura. E l’uomo non è una misura astratta dell’uomo, ma differenziato nella sua psicologia. Così come sono differenziati i vari paesaggi, i vari animali, la luce.

Figurativamente mi sono posto di portare la composizione del quadro a un insieme di rapporti fra gli oggetti, gli animali e l’uomo (in cui l’uomo sia centro e sempre il personaggio principale) che rispecchino la logica degli avvenimenti. Nessun arbitrio compositivo. Così gli atteggiamenti, i gesti, in una logica naturale di movimento e controllati a lungo fin nei particolari. E un controllo anche nel colore, quel colore che prima avevo fatto vivo e violento. Uno sforzo per un colore in rapporto alla logica delle situazioni e degli avvenimenti, vero senza essere attenuato.

Armando Pizzinato

(in Pizzinato, catalogo della mostra, Roma, Galleria Il Pincio, 1952)


 

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