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Parma, 1953-1956

Storia di 150 metri quadrati di pittura murale a buon fresco


Il primo muro, dipinto nel 1936 a Maniago nell’atrio della palestra, progettata dall’architetto Midena di Udine, fu distrutto.

Su «l’Unità» del 4 febbraio 1949 appare l’articolo Gli artisti chiedono pareti da dipingere, che ben evidenzia l’aspirazione a realizzarne altri.

L’occasione arrivò quattro anni più tardi, nel settembre 1953, quando vinsi il concorso – bandito dall’Amministrazione Provinciale di Parma – per la decorazione di una sala situata nella parte ricostruita fino al limite della strada, nell’Ala che un tempo univa il Palazzo Provinciale alla monumentale mole della Pilotta.

Era uno spazio a base quadrata, con i muri sforacchiati da troppi vuoti: sette sproporzionate finestre, due piccole porte, e il soffitto basso, incombente; una finestra fu chiusa su mio suggerimento, non fu possibile fare altrettanto per una seconda, perché ancora si sperava che un intervento statale consentisse di ricostruire anche l’altra parte distrutta dalla guerra. Quella finestra si sarebbe trasformata nella porta di accesso ad una più ampia sala rettangolare: sarebbe stata la definitiva Sala del Consiglio.

Sono passati oltre trent’anni e di tutti questi progetti non si sente più parlare, quasi non fossero mai esistiti, o fossero appartenuti ai sogni di qualche visionario.

Nel novembre dello stesso 1953 Carlo Scarpa fu con me a Parma. Vide la sala, accettò di studiare il modo per risolvere i problemi dell’arredamento e della sistemazione delle pareti. Prese questa decisione per la stima e l’antica amicizia che ci legavano; ma accettò anche perché le difficoltà di una situazione interessante da risolvere, una volta focalizzate, lo sollecitavano sempre all’intervento.

Vengono eseguiti, su suo disegno, le delimitazioni degli spazi destinati al ciclo di affreschi: sono realizzate con listelli di marmo bianco; spesse lastre di pietra affiancano poi le finestre e, come di pietra, con una larga parte sporgente, è la base al limite del pavimento.

Sui muri fu steso un primo strato di malta e mattone tritato: l’arricciato. Intanto, a Venezia, io disegnavo i cartoni. Cominciai ad affrescare il primo muro (cinque metri per quattro), con l’episodio di Costruzione di un ponte, ai primi di ottobre del 1954. Lo completai in due mesi (non avevo bisogno di sveglia, per essere sul posto ogni mattina alle sette) e venne inaugurato il 18 dicembre 1954.

Per dare un’idea delle condizioni nelle quali ero costretto a lavorare, riporto qui di seguito un brano di una lettera da me inviata in quell’epoca al Presidente, più efficace forse di qualsiasi ricostruzione a memoria: “questi affreschi li ho eseguiti per un compenso molto relativo (poco più della paga di un muratore specializzato) e col solo ‘relativo’ aiuto del mio custode all’Istituto d’Arte presso il quale allora insegnavo, dico relativo perché egli, oltre ad impastare la malta, veniva alle cinque del mattino a stenderne il primo strato e non poteva fare di più perché doveva tornare a scuola. Alle sette arrivavo io e dovevo fare da solo tutto il resto: stendere cioè lo strato definitivo d’intonaco, frattonarlo e, con una piccola cazzuola fare la giunta con la parte già dipinta senza rovinarla; lavoro questo che mi impegnava spesso fino a mezzogiorno, infine, quando le mie braccia erano indolenzite per la fatica, potevo finalmente incominciare a dipingere e continuavo finché il custode del palazzo (dalla mezzanotte all’una) non mi obbligava a sospendere per permettergli di andare a letto ”.

Questa storia del custode che arriva ad interrompere il mio lavoro merita di essere brevemente rievocata.

Lo sentivo arrivare dal soffio che faceva la porta aprendosi. Lui, con una coperta sulle spalle, stava immobile, senza fiatare, stagliato nel nero vano della porta.

La sua presenza mi paralizzava, non potevo più continuare a lavorare con quel fantasma alle spalle; mi voltavo a guardarlo per fargli capire che avrei sospeso tutto, che me ne sarei andato. Immediatamente, arretrando di un passo, lui scompariva risucchiato dal buio del lungo corridoio.

Non mi fu permesso di piazzare una branda e dormire lì; il lavoro si interrompeva ogni notte così, con questa comparsa inquietante che si materializzava all’improvviso bloccandomi.

E la mattina dopo era impossibile aggiungere un solo segno senza guastare la pellicola di carbonato che si era formata sulla superficie della pittura.

Ma torniamo alla lettera: “il compenso che ricevevo per questo lavoro mi permetteva appena di alloggiare all’allora alberguccio di puttane, il ‘Concordia’, una stradina alle spalle del monumento a Garibaldi, e di mangiare, assai modestamente, qualcosa portatami sul posto da una vicina latteria. Per farla breve quest’opera si è potuta realizzare solo grazie alla volontà del Presidente di allora, l’avvocato Savani, e grazie al mio entusiasmo”.

Le difficoltà e la fatica erano compensate dalla gioia del dipingere, dall’interesse per questa tecnica che sperimentavo per la prima volta e che scoprivo ricca di suggestioni. Il muro, al confronto con la tela a dimensione fissa, obbligava a muoversi su spazi nuovi, in differenti rapporti fra pieni e vuoti e fra parete e parete. Il muro suggeriva soluzioni impreviste, l’immaginazione era di continuo sollecitata, e il dipingere sull’intonaco fresco, che per ore riceveva e assorbiva il colore senza appesantimenti, era un bel dipingere.

Lavoravo a fasi alterne, agli affreschi a Parma, ai cartoni a Venezia, e il tempo scorreva aiutandomi a superare certi problemi, diventava quasi un riposo risolverne di diversa specie. A Venezia, per esempio, la difficoltà era come eseguire i cartoni preparatori. La risolsi rizzando nello studio un pannello alto fino al soffitto, dietro il quale, infilato in un tubo di ferro era appeso il rotolo intero di carta da scenografi (larga 180 cm). La carta, oltrepassata la cima del pannello, scendeva sul davanti fino a terra, dove veniva avvolta ad un grosso tubo di cartone. In tal modo, facendola scorrere su e giù, potevo lavorarci quasi come nell’affresco, un pezzo alla volta, riuscendo a realizzare, una dopo l’altra, delle strisce di quattro metri, esattamente dell’altezza del muro da dipingere. Il mio studio, una comune stanza, neppure lontanamente raggiungeva i quattro metri e mezzo necessari per l’altezza; solo portando i pezzi di cartone a Parma e appendendone le strisce, una accostata all’altra, potevo vederne l’effetto complessivo. Solo una volta ho dovuto correggere una figura che risultava troppo alta.

Salito sull’impalcatura, appoggiato il cartone sulla malta fresca, riportavo, un pezzo al giorno, il disegno sulla parete, incidendo l’intonaco con un ferro dalla punta smussata. Poi ripassavo il segno con un sottile pennello, intriso di colore leggero di terra verde: ne sortiva il profilo delle figure e cominciavo a dipingere.

La parete, situata di fronte a chi entra nella Sala, l’ho fin dall’inizio concepita come un trittico sul lavoro, un trittico determinato dalle due finestre.

La prima parete dipinta, quella della Costruzione di un ponte, è la centrale; alla sua sinistra, all’incrocio delle pareti, l’angolo è risolto con strutture a traliccio, intorno alle quali si affaccendano alcune figure, altre sostano in una pausa di riposo, e dietro si apre la campagna. Nella parete di destra si vedono dei muratori al lavoro, l’ho intitolata Metello, come il libro di Pratolini pubblicato in quello stesso anno (per terra il libro è raffigurato in una rustica natura morta).

Il lavoro del muratore lo conoscevo, molti sono i muratori dalle mie parti, ed io stesso stavo in un certo senso praticando quel mestiere.

Se si “leggono” le pareti come un libro, da sinistra a destra, si arriva alla parete dove sono raffigurati due episodi cari ai parmigiani: Le barricate del ’22 e L’eccidio di Bosco del ’44.

Mentre le dipingevo vennero da Oltretorrente vecchi compagni di Picelli. Erano emozionati e decisi al tempo stesso: volevano che la figura che dominava le barricate somigliasse al loro eroico comandante. Mi davano suggerimenti, mi portavano fotografie, doveva avere i capelli, il colletto, la cravatta in un certo modo. Doveva essere riconoscibile, insomma, l’uomo che organizzò e guidò i popolani di Oltretorrente contro le bande fasciste e capitanate da Balbo, armate di mitragliatrici e con le autoblinde, e che le mise in fuga ricacciandole dalla città.

Per l’altro episodio i partigiani mi portarono invece sugli Appennini, nel luogo dove avvenne l’accerchiamento tedesco e dove un gruppo partigiano di dirigenti antifascisti si difese fino all’ultimo colpo di mitra prima di venir trucidato.

Prima di affrontare la parete più vasta, trascorsi intere giornate in una fattoria. Vissi con i contadini, parlai con loro, osservai il loro lavoro, gli animali, i buoi, i maiali… In quella fattoria abitai qualche giorno, immergendomi nella sua vita e nei suoi ritmi.

Quei contadini mi fecero poi arrivare in dono, alla Provincia, alcune balle di paglia di frumento.

Con nella testa e negli occhi il ricordo e le impressioni di quelle giornate, affrontai il muro di slancio, consapevole che la sua funzione principale era quella di equilibrare frontalmente il trittico sul lavoro: vi dipinsi appunto La trebbiatura, dove i veri protagonisti erano i miei amici contadini della fattoria, i loro buoi, i carri che trasportavano il grano, il bambino che giocava col cane bastardo sull’aia, la scrofa con i suoi piccoli.

L’intera sala fu totalmente compiuta e inaugurata il 13 ottobre 1956.

Non tocca a me riferire qui sul lavoro di Scarpa, visto che se ne occuperà l’architetto Pastor, ma non posso chiudere questa breve cronaca senza ricordarlo a mio modo.

C’era sempre da imparare da Carlo Scarpa. Quando si parlava assieme, quando si stava con lui, si veniva anche presi dal suo singolare temperamento poetico. Viveva le cose, dico le cose per dire proprio le cose: un sasso, un albero. Riusciva a penetrare nella natura stessa della pietra, del legno, del ferro e sapeva raccontarle con straordinaria fantasia e grande poesia. Riusciva a trasformare, a dar vita alla materia, a conferirle forme nuove, imprevedibili. Da questo punto di vista ho spesso pensato a lui come ad un Michelangelo dei nostri tempi, perché come quel grandissimo artista, anche lui in un certo senso già vedeva la figura dentro il masso di marmo e doveva liberarla, farla uscire da ingombranti involucri.

Di giorno e di notte, quante volte, in quegli anni vissuti a Parma, mi sono incantato davanti alla Piazza del Duomo e, girando intorno alla Cattedrale, davanti al Battistero, quante volte ho osservato con meraviglia e con ammirazione ogni particolare delle sculture dell’Antelami! Pensavo di conoscere a fondo tutto questo.

Il giorno che vi tornai assieme a lui, rividi quegli stessi luoghi anche con i suoi occhi. Facemmo lo stesso percorso, fin dietro le absidi. Non gli sfuggiva nulla: si avvicinava e si allontanava di continuo, così che nello spazio i profili della grande mole si animavano, si muovevano e spostavano. All’improvviso era colpito da un motivo di ornamento, magari da un dettaglio, me lo indicava, continuava a parlare e a muoversi in un crescendo emozionante di scoperte, così che le sue osservazioni si trasformavano in una singolarissima, indimenticabile lezione. Ne fui così profondamente coinvolto che fu per me come una seconda scoperta.

Oltre a questo, mi piace qui ricordare di Scarpa anche l’arguzia, l’ironia, la passione e la finezza, quella mescolanza anche umorale che più di una volta mi hanno fatto venire in mente il personaggio brechtiano dell’ambasciatore veneziano, nel Galileo.

Un’intesa immediata si realizzava tra noi particolarmente per quanto di costruttivo, di razionale, di strutturale, pur facendo cose diverse, apparteneva ad entrambi e reggeva il nostro lavoro. Mentre imperversavano ancora le polemiche un po’ insensate tra astrattisti e realisti, lui, con civiltà superiore, accettò di collaborare alla realizzazione di questa impresa per molti motivi complessa e difficile.

È stato così che due “forestieri” hanno portato a Parma, al posto di una sala in finto stile Maria Luigia, un contributo originale, a suo modo unico, una sala a cui oggi può essere riconosciuto un valore anche storico.


(scritto nel 1985, parzialmente pubblicato in Marco Goldin, Pizzinato, Milano, Electa, 1996, p. 243-249)



 

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